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Alcolismo: malattia della famiglia

Ci incontriamo nella stessa sala in cui un anno prima ho intervistato gli altri membri, una comunità di uomini e donne che si sostengono. Sono tanti i luoghi in cui si ritrovano: stanze date dal Comune, dalle vecchie ASL che oggi sono Case di Comunità e anche oratori. E proprio in un oratorio torno per incontrare nuove storie. Una chiesa di mattoni rossi, una sera tardi, una piccola stanza al secondo piano delle strutture che compongono l’oratorio, con i banchi disposti per il catechismo e alla lavagna delle scritte non ancora cancellate forse dall’ultimo incontro della domenica. Ad attendermi ci sono una pizza d’asporto e le persone con cui avrò a breve un dialogo, una chiacchierata alla quale mi sono preparato emotivamente ma per la quale so che non sarà mai davvero pronto. Perché è solo l’amore, solo il conoscere. Sono sempre le storie. E quelle dei membri Al-Anon le ho già ascoltate, ma poi ogni storia è a sé, ogni storia è la Storia di ognuno e per ognuno è la cosa più importante.

M. ha 19 anni e un bel sorriso. Mi racconta che la sua infanzia non è stata segnata dall’alcolismo che anzi si è manifestato solo di recente e del quale, durante il periodo di Natale di qualche anno fa, ha preso consapevolezza. M. è giovane, è luminosa. Mi confida che all’inizio si sceglie di entrare nei gruppi non per sé stessi, ma che questa è una credenza che presto viene smentita. La spinta esterna è stata dunque il senso di responsabilità, quel “entro per far smettere l’altro”, ma presto il percorso diventa personale, una ricerca identitaria attraverso le macerie familiari.

Mentre chiacchieriamo, seduti alle sedie dei banchetti disposti a ferro di cavallo, M. mi parla, soprattutto all’inizio, senza guardami negli occhi, gioca con i lacci delle scarpe, poi con l’orologio, come se stesse cercando nel presente un appiglio tangibile per ripercorrere il passato. In quel passato, c’è all’inizio un bisogno di crogiolarsi nell’autocommiserazione, la tentazione di sentirsi giustificati nel proprio dolore. Eppure, successivamente, prevale la necessità di reagire. E a questo punto M. mi guarda.

Sono necessarie un paio di telefonate prima di trovare la persona giusta. La difficoltà nel comunicare, l’abisso generazionale. E poi a un certo punto, dall’altra parte del telefono, arriva una domanda semplice, ma carica di empatia: “Puoi parlare in questo momento?”. È lenitiva, è un senso di comprensione che crea fiducia. Dopo la chiamata, in attesa che le riunioni riprendano dopo le vacanze, la persona al telefono manda a M. tutti i giorni una pagina giornaliera, altro gesto che la fa sentire meno sola.

Quando finalmente M. riesce a partecipare alle riunioni, che, forse un segno, si tengono l’unica sera in cui non si allena con l’atletica leggera che pratica a livello agonistico, nella stanza ci sono tre persone: M., un ragazzo con cui è ancora in contatto, S., che vedrà solo quella volta e poi F., lo sponsor eletto dai ragazzi e dalle ragazze che la accoglie e le spiega il funzionamento delle “stanze”.

Da lì in poi comincia il percorso di M. che non è lineare e che spesso ha delle “ricadute”. Il familiare alcolista di M. è sua madre con la quale, come per la maggior parte degli adolescenti, spesso è difficile “non salire sulla giostra”, non entrare in conflitto.

Mentre me lo racconta, noto che M. indossa un maglione blu, dei pantaloni di velluto ocra, delle calze con gli smile e una sciarpa fatta a mano. “Chi te l’ha fatta?” le chiedo. “Mamma” mi risponde con gli occhi pieni di amore.

Le dico che il tempo per la nostra chiacchierata è concluso e lei ci tiene ad affidarmi ancora un insegnamento: “Non si decide di perdonare e automaticamente si perdona” e poi dice che però ci sta lavorando. E mi sorride.

F.  è stata al telefono con noi in silenzio per tutto il tempo della chiacchierata con M. che è sua amica. Ha 16 anni. La immagino a casa, immersa nella sua vita di adolescente, la ringrazio per esserci e per fidarsi. È entrata nelle stanze a settembre, ma conosce i gruppi da tempo perché suo padre è alcolista e sua madre frequenta Al-Anon. Durante un raduno nazionale a Rimini al quale partecipa per accompagnare la madre capisce che i gruppi Alateen possono essere una possibilità. Quando partecipa la prima volta e conosce il suo sponsor prova subito una sensazione di libertà.

F.  mi racconta che all’inizio credeva che il problema non la riguardasse. Il padre non aveva un alcolismo attivo, aveva smesso di bere alla sua nascita, ma a partire dai 14 anni, F. inizia a notare delle ricadute. Così si convince e chiede aiuto ai gruppi. Alla prima riunione si ritrovano in due: M. e lei. Ma F. si sente nel posto giusto. Accolta. I genitori la spingono a frequentare i gruppi e, da quando lo fa, F. inizia a mettere in discussione quella figura di “superpapà” che “ha smesso di bere per me”. L’umanizzazione dei genitori.

Maturità, ascolto, non infantilizzazione, speranza, futuro.

Prima di salutarle, M. e F. mi raccontano della loro preoccupazione rispetto all’alcol. M. mi dice che “la consapevolezza da raggiungere è che tu non ci puoi fare nulla se è scritto nei tuoi geni”. Puoi però imparare a gestirla e a conoscere gli strumenti che servono ad affrontarla. Mi parlano di percorsi psicologici da affiancare ai gruppi. E poi arriviamo a parlare di Dio, nel quale dicono di non credere in senso stretto, ma della necessità di riconoscere che in un percorso come questo, c’è bisogno di credere in un “potere superiore” che dia “la serenità di accettare le cose che non possono cambiare, il coraggio di cambiare quelle che possono e la saggezza di comprenderne la differenza”.

R. ha una sorella che è un’alcolista attiva, ma mi racconta subito che la sua è una “famiglia disfunzionale”. È una donna che porta con orgoglio e leggerezza la sua età. Indossa un giubbotto panna, ha le braccia conserte mentre racconta e una sciarpa a pois neri. Mi confida che anche lei ha sofferto di dipendenza, che il suo compagno era alcolista figlio di un alcolista e una tossicodipendente. La vita scorre, R. chiede aiuto e il percorso devia dalla disfunzionalità finché, trent’anni dopo quelle esperienze, è costretta a rifrequentare la famiglia biologica perché obbligata dall’anzianità dei genitori. E in questo frangente deve tornare ad avere rapporti anche con la sorella, sposata con un ludopatico e che, quando rincontra, inizia a manifestare segni di un alcolismo attivo, negli anni rimasto sempre latente. Frequenti sono gli episodi in cui la sorella si addormenta a tavola, il disordine regna sovrano, spesso arriva il vomito e la conflittualità nei rapporti con i figli, i nipoti di R. esplode.

Quando il padre viene a mancare, la madre le confessa di essere spaventata dalla violenza della sorella che ha frequenti scatti d’ira. Inizialmente R. non ci crede, ma presto l’evidenza dei fatti la costringe ad accettare la realtà. Il fondo viene toccato quando la madre si ammala di demenza e la sorella reagisce con violenza. R. pensa di chiamare la polizia, ma non si sente poi di denunciare. Tuttavia, questo episodio, la convince a ricominciare a frequentare i gruppi. Grazie a quel percorso, R. impara il “distacco partecipe”, quel non farsi prendere dalle ossessioni. Eppure, il fatto che la madre si trovi in mezzo a questa situazione è un elemento che in un primo momento complica le cose.

Vergogna, senso di colpa, confusione, indecisione, un distacco dalla famiglia doloroso.

R. mi dice che suo padre era figlio di un alcolista, in una catena che si ripete dunque di generazione in generazione. E allora, per spezzarla, mi dice “Io mi sono recuperata e voglio vivere da recuperata”. Mi confessa anche che avrebbe voluto farne a meno, ma che ora è in un percorso positivo, che è in pace. Racconta in chiusura che una delle cose più difficili è rispettare l’alcolista attivo in tutti i suoi comportamenti, il caos in cui vive, i debiti, le bugie. Ma è un allenamento, un cambiamento possibile.

“Sto nei quindici minuti che ci eravamo fissati”, mi dice, sistemandosi i capelli biondi dietro l’orecchio.

A. indossa occhiali leopardati e orecchini a cuore. “Si guarisce solo così: quando apri la tua storia agli altri”, mi dice come prima cosa. E la sua storia comincia nel 2012, quando A. scopre le bottiglie nascoste del marito. La prima cosa a cui pensa è quella di partecipare alle riunioni, la seconda è quella di portare i figli in Alateen. Mentre il loro percorso comincia e continua, quello di suo marito accelera e poi precipita. Quattro anni dopo muore di tumore al fegato nello stesso reparto in cui i figli erano stati a dare le loro testimonianze. Suo figlio parla con i futuri medici, sua figlia si rivolge agli infermieri, va a parlare in radio. Oggi hanno 26 e 23 anni e hanno imparato a dire di no alle relazioni tossiche. La domanda sul perché A. sia rimasta con il marito nonostante l’alcolismo, trova una risposta semplice e spiazzante: “Perché lo amavo, perché mio marito era anche altro oltre alla malattia”. Ma ai figli questo viene spiegato dopo, arriva dopo. Perché A. mi confessa che quella malattia è anche quella cosa lì: isolarsi, rimanere lì, farlo per il controllo. Mi dice che il pensiero è “Brava come me non c’è nessuno, quindi devo starci io”. E poi subentra la paura che quella persona muoia, che faccia disastri. “Ma è un’illusione, non è la realtà”. A furia di “e se poi, e se” si perdono gli anni, mi dice guardandomi negli occhi. “Sei lì a sopravvivere e basta”.

Ma a un certo punto A. capisce che deve cambiare qualcosa. Si iscrive a un corso di inglese, va al cinema, frequenta una scuola per facilitatore di biodanza. All’improvviso tornano i progetti per il futuro. A 62 anni, riprendendosi in mano la sua vita ed essendo di esempio anche per i figli. “Per questo funziona”, mi dice, “perché lo faccio per me”. Ricorda tutto, per restare umile. Si apre agli altri, scopre di essere interessante. Si lascia incontrare. Dopo otto anni e mezzo, si dice lontana da quella situazione. Perché aveva promesso: nella buona e nella cattiva sorte, nella salute e nella malattia, e l’alcolismo è una malattia. Una malattia che riguarda certo la dipendenza da alcol, ma che con sé si porta tutti gli atteggiamenti dell’alcolista, che dice bugie, che inganna. “L’alcolista è un egocentrico, vuole sempre di più e vuole sempre sentire il suo pubblico”. Ma A. ora è libera. E insieme ascoltiamo una canzone che la sua testimonianza mi ha fatto venire in mente. E piangiamo insieme, di gioia e di speranza, di futuro e di vita. Ancora di vita.

È sempre l’amare, sempre il conoscere. È sempre la vita.

MATTIA TORTELLI

 

I Gruppi Familiari Al-Anon sono per familiari e conoscenti di alcolisti. Il loro unico scopo è dare sostegno a tutti coloro che soffrono per le conseguenze dell’alcolismo di un altro.

Chiunque condivida l’esistenza o la vicinanza con un bevitore compulsivo vive in uno stato profondo e continuo di disagio, ansia, vergogna e grande solitudine se non paura, dove tutti i pensieri sono rivolti ossessivamente al bevitore e al suo comportamento dal quale tende a difendersi e controllare con atteggiamenti manipolatori.

L’alcolista spesso non riesce a curare le proprie responsabilità familiari o professionali, tende a vivere nella negazione e inconsapevolezza, a mentire provocando rabbia, risentimento e rancore nei propri familiari o conoscenti che si convincono di essere in qualche modo responsabili del suo comportamento e a vivere nel senso d colpa e di vergogna rifiutando di riconoscere quale sia il vero problema.

In Al-Anon è possibile trovare la forza per parlare di questa situazione e tutto l’aiuto necessario. Nelle riunioni si condividono esperienza, forza e speranza ed è possibile trovare la serenità sia che l’alcolista beva ancora o meno.

In Al-Anon viene rispettato l’anonimato inteso come riservatezza e tutela reciproca dei membri, dei loro familiari e di tutto ciò che viene detto o sentito nelle riunioni.

Al-Anon non è affiliata ad alcuna setta, fede, partito politico organizzazione o istituzione. Nelle riunioni non ci sono professionisti, non ci sono quote da pagare Al-Anon si autofinanzia su base volontaria senza accettare sovvenzioni esterne.

Cosa dicono i professionisti dei gruppi familiari AL-ANON – Segui le interviste complete: 

Prof. Fabio Sbattella Docente di Psicologia Clinica presso Università Cattolica di Milano.

“Ogni anno vengono attivati gruppi di lavoro sul rapporto tra consumo di alcol e incidenti. Questi lavori sono finalizzati a migliorare specifiche campagne di prevenzione. Inoltre, vengono esaminati i dati forniti dall’Istituto Superiore di Sanità relativi allo spettro delle sindromi feto.  Infine, da ben dieci anni, nei suoi corsi vengono ospitate testimonianze da parte di familiari di alcolisti di Al-Anon. I giovani studenti e le future professioniste hanno così modo di incontrare dal vivo molte persone che hanno attraversato la sofferenza e hanno molto da insegnare”.

Prof. Pier Maria Battezzati – Direttore Medicina ad indirizzo epatologico e gastroenterologico Ospedale San Paolo di Milano

“Da tempo è emerso il fatto che molti pazienti con malattie epatiche presentano anche problemi legati all’abuso di alcol. Il lavoro del team si è quindi orientato a esplorare le risorse disponibili per supportare quei pazienti, nonostante le loro malattie non fossero sempre direttamente collegate all’alcol e la collaborazione con gruppi di Alcolisti anonimi è stata fondamentale per supportare pazienti e famiglie. E proprio per il supporto alle famiglie comincia la collaborazione con Al-Anon.”

Dott. Livio Colombo – Direttore Pronto Soccorso Ospedale San Paolo di Milano.

Le stime del 2022 indicano che circa 40.000 accessi in pronto soccorso siano stati causati da problemi legati all’alcol, spesso associato anche all’uso di altre sostanze. Un dato da sottolineare è che il 10-15% di quegli accessi hanno riguardato pazienti minori di 18 anni.”